lunedì 3 dicembre 2007

Caerberus, Capitolo Primo.

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Alla fine ci sono arrivato, ad Atlantide.
Ne parlava sempre il professor Rah, e io, vassallo condiscendente e ipocrita, lo ascoltavo con il mio sorriso più indulgente. Diceva: Atlantide sarebbe stato un buon posto per una vacanza. Immaginava spiagge bianche, gabbiani, conchiglie, palme, cieli azzurri, venti tiepidi, tramonti fiammeggianti in bilico sulla linea dello sguardo. E di notte, donne belle e disponibili, con la pelle ambrata che riflette la luce delle stelle boreali.

Se chiudo gli occhi posso ancora vederlo, mentre indica con convinzione la posizione del continente sommerso sulla plancia del Risiko.

Mentre spostavo le mie armate per attaccare la Jakuzia, il professore continuava la sua evocazione, dilungandosi nelle descrizione delle donne: ora erano alte e bionde con la pelle scura delle africane, ora more con i denti scintillanti e i fianchi teneri, ora come le orientali, ma con gli occhi azzurri; il portamento elegante, i glutei pieni, i piedi piccoli, discreti. Anche quando la realtà cruda dei mezzi corazzati prendeva il sopravvento sulla plancia da gioco e la battaglia infuriava nei quattro angoli del mondo, la magia del continente di Atlantide rimaneva fluttuante nelle ore della notte, così che continuavamo a parlarne anche dopo che il nostro piccolo passatempo era andato in malora.

Un attimo prima di spaccarmi la testa con una leva di titanio, il professore dedicò ad Atlantide un ultimo pensiero: le sue donne multicolori, le sue notti boreali. Poveraccio.

É così che sono finito ad Atlantide e ci sono rimasto per quasi due mesi, mentre il mio corpo, aiutato da macchine infernali, preparava la beffa più crudele. Riportarmi indietro. Strapparmi al mio paradiso.

E ora finalmente capisco il senso delle parole del professore, la sua nostalgia per i luoghi che nessuno ha mai visto e nessun altro, oltre me, vedrà mai. Nella mia nuova consapevolezza posso comprendere quale senso di vuoto rechi il pensiero di non poter mai e poi mai vedere le coste regolari di Atlantide, studiare il ritmo delle sue maree, perdersi nella perenne penombra dei suoi orizzonti spazzati dal tiepido vento del sud. Il professor Rah è un ottimista, uno della confraternita del bicchiere mezzo pieno, uno dei fortunati perché audaci, ma nemmeno la sua buona stella lo accompagnerà mai sin là.

Dal buco che il professore ha aperto nella mia testa è uscito per un po' parecchio sangue, misto ad un torbido liquame di cellule celebrali e frammenti di ossa. Poi, d`un tratto, sono scappati fuori Meo Porcello e San Gabriele. E, nonostante gli sforzi del mio dottore, che da sei mesi cerca invano di rificcarli dentro, sono ancora con me, vanno e vengono nella mia stanza, campeggiano nei corridoi dell'ospedale e talvolta si fermano a chiacchierare fino a notte fonda.

L'altra sera Meo Porcello mi ha chiesto se è vero che una volta avevo un dinosauro tutto mio, un dinosauro creato a mia immagine e somiglianza. Bisogna compatirlo: si è estinto troppo presto e non ha avuto il tempo di imparare a distinguere le colpe dai meriti. E anche se pone domande impertinenti, sono sicuro che non lo fa apposta.

Ho conosciuto Meo Porcello da bambino, su un albo a fumetti di mio zio. Allora aveva amici influenti: il suo compagno delle prime avventure, Donald Duck, oggi è più famoso di Gesù Cristo e i Beatles messi insieme. Ma io preferii Meo, il suo aspetto goffo e macilento, la sua pancia trasbordante, il suo sorriso asimmetrico. Si: io fui uno dei pochi che dopo aver guardato attentamente sia Donald che Meo finì per scegliere Meo, il dinosauro estinto, il perdente, e, se ci penso su oggi che dalla mia infanzia mi separano due trapassi e due rinascite, mi rendo conto come quella scelta abbia tracciato un solco profondo nella mia vita, un solco dove prima o poi avrei finito per sprofondare. Scegliere Meo e non Donald fu il mio peccato originale. Come un dinosauro, Meo Porcello era troppo grande e grosso per quel mondo di paperi e topolini, e come un dinosauro era votato all'estinzione. E, sempre come un dinosauro, era circondato di quell'aura evanescente che brilla per tutti quelli che il destino, in un dato istante, sceglie di cancellare. Qualche milione di anni di dominio incontrastato, un'era di forza e di grandezza, e poi il nulla, nessun futuro.

Chissà se mi toccherà la stessa sorte.

Da qualche tempo le sedute col dottore sono divenute monotone. All'inizio non era così, anzi sotto la sua guida i ricordi più sfocati emergevano dal brodo primordiale nella mia memoria, si stagliavano al di sopra della coltre di nebbia che avvolge i miei pensieri per decollare al di fuori della mia testa, nitidi e luminosi come le stelle di Atlantide. Il dottore era convinto che un bel giorno sarei stato ricondotto alla salute. Ora, come vedo chiaramente dal suo sguardo, non più.
Alle due del pomeriggio, ogni mercoledì, ci accomodiamo tutti e quattro al tavolo della mia stanza, io, il dottore, Meo Porcello e San Gabriele, e il dottore mi chiede come vanno le mie visioni. Mi ha spiegato tante volte che Meo e San Gabriele non sono reali, che sono immagini scivolate fuori dal buco che il professor Rah mi ha aperto nella testa. All'inizio gli ho anche creduto, ma oggi guardo alla mia sinistra e Meo mi sorride, contento per il solo fatto di essere venuto al mondo; mi volto a destra e San Gabriele, dopo averci pensato su, mi ricambia con il suo sguardo fermo e risoluto. Lui non fa mai nulla senza prima riflettere; ogni suo gesto, anche il più banale, sembra essere mosso da pensieri intimi e indispensabili.
Non so se San Gabriele abbia sempre avuto l'aspetto imponente e l'aria sicura che ha ora. A dispetto delle icone, che lo ritraggono in una tunica lunga e nera, la faccia resa insulsa da un perenne sorriso ebete, io l'ho sempre immaginato così come lo vedo ora: l'espressione seria e quasi ostile, alto, magro, le guance incavate, l'occhio sicuro e silenzioso come quello dei guerrieri.
É bello avere di nuovo con me San Gabriele, non lo vedevo dal 5 giugno 1984, la notte in cui rivolsi al creatore la mia ultima supplica.


Caro Creatore di tutte le cose,
Io non appartengo a questo mondo.
Ma ho assolto il mio compito.
Ora voglio tornare a casa.
Voglio tornare nel Triassico, da dove sono venuto.
Non so quanti giorni Tu mi avevi destinato,
Ma ora non mi servono più.
Riprenditeli.

Le parole me le ricordo molto bene, le ha portate indietro il vento di Atlantide e non credo proprio che le scorderò di nuovo.

Subito dopo averle pronunciate inghiottii un flacone intero di barbiturici e mi predisposi al mio primo trapasso. Altri due sarebbero seguiti.


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